Alla domanda se sono d’accordo sull’uso della scrittura inclusiva, di getto risponderei di no. Per quello che è il mio gusto, il mio vissuto, lo studio della lingua italiana e delle sue regole che porto avanti da anni. Che mi si chiami direttore o direttrice per me non fa alcuna differenza. Anzi, a essere sincera mi piace più direttore. Il problema però ha anche un aspetto sociologico e richiede la massima delicatezza. Là fuori, e magari ci sei anche tu, possono esserci persone che soffrono a causa del loro mancato riconoscimento come individui. E se per queste persone la mancanza di un linguaggio inclusivo è motivo di disagio, non possiamo fare finta di niente.
Fai attenzione, perché oggi la questione non riguarda solo maschi e femmine. Ci sono persone che non si riconoscono in nessun genere e altre che stanno affrontando un lungo e complicato periodo di transizione. Negli ultimi tempi si discute su quali siano le soluzioni migliori da adottare. L’argomento è dibattuto anche in riferimento al gender gap. Un tema controverso e complesso, di cui non mi occupo e che cito soltanto. Avrai sicuramente presente la recente discussione sul titolo con cui riferirsi a Giorgia Meloni. Presidentessa o Presidente? La o il Presidente?
I simboli inclusivi usati per la scrittura sono @ e *. Nella lingua parlata viene usato lo schwa ə al singolare e з al plurale. Purtroppo ogni giorno se ne sentono di nuove, e alcune teorie sono alquanto grottesche. Per quanto mi riguarda, non sono d’accordo con i grammarnazi e non lo sono nemmeno con alcuni sociolinguisti che affrontano la grammatica come se fosse solo uno strumento da adattare alle necessità sociali del momento. Non funziona così. La grammatica è una disciplina ben più complessa. Si evolve con noi nel tempo, è vero, ma è sbagliato pensare di poterla plasmare per assecondare ogni nostro bisogno. Così facendo distruggeremmo la lingua.
Aggiungo, e mi preme molto farlo, che chi continua a credere che i generi nella grammatica siano legati ad aspetti prettamente biologici, non sa di cosa parla. La grammatica è un codice con regole che servono per rendere comprensibile la lingua. Ha una profonda connotazione sociale e lo sappiamo, perché i suoi cambiamenti e la sua evoluzione dipendono da tutti noi. Però la grammatica non merita di essere smantellata per rispondere a ogni nostra necessità sociale. Riporto l’intervento di Apollo D’Achille dell’Accademia della Crusca, che sull’uso di simboli e in particolare dello schwa scrive:
L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti.
A questo punto avrai capito che non uso i simboli inclusivi nei miei scritti. Li uso solo nei copy, nelle newsletter e nei testi dei clienti, se me lo chiedono. Non sono il tipo che non cambia idea nella vita e magari in futuro li userò, felice di farlo. Per ora no. So che allo stato attuale delle cose, come dice anche D’Achille, dovremmo pensare ad azioni concrete di ben altro tipo, che garantiscano l’inclusione di ogni singolo individuo.
E tu che ne pensi? Usi i simboli inclusivi? Parliamone nei commenti, è un argomento di estrema attualità.